Foto: Servizio Vigilanza delle APAC
di LUCA GIUNTI (tratto dal sito Piemonte Parchi)
SALBERTRAND – Due cacciatori, in regola con le leggi venatorie, durante una battuta di caccia al cinghiale in Alta Val Susa, invece che a un cinghiale sparano volutamente a una cerva e al suo cucciolo nato a maggio. Bambi è morto, la madre scappa. I ruoli immortalati dal cartone animato di Walt Disney sono stati invertiti. Purtroppo la femmina, ferita dalle fucilate, non è più stata trovata. Probabilmente è morta dopo qualche ora o qualche giorno per emorragia o setticemia, oppure, sciancata, incapace di alimentarsi o di fuggire, è diventata facile preda dei lupi che le hanno somministrato una pietosa eutanasia. La natura sa essere più onesta degli esseri umani.
È questa una spregevole storia di bracconaggio che fa disonore a quella gran parte dei cacciatori che si comporta correttamente, nel rispetto delle regole imposte dalla legge. I guardiaparco delle Aree Protette delle Alpi Cozie, in servizio di vigilanza sui confini del Gran Bosco di Salbertrand, hanno osservato i manigoldi agire all’esterno del parco e dove il reato sarebbe stato molto più grave. Hanno quindi attivato la collaborazione – frequente e proficua – con i colleghi del Servizio Tutela Flora e Fauna della Città metropolitana di Torino e con le guardie del Comprensorio Alpino TO2.
Durante gli interrogatori, uno dei malviventi ha cercato di discolparsi: “Ho percepito un movimento dietro un cespuglio, credevo fosse un cinghiale, ho sparato alla sagoma intravista”. Una scusa spesso invocata in casi come questo perché potrebbe servire a sminuire la gravità del delitto. Il nostro ordinamento, infatti, stabilisce “in dubio pro reo” e dunque, mancando la prova fattuale del dolo, ai bracconieri è stata inflitta la sanzione di 2.000 euro prevista dalla legge venatoria regionale, senza il sequestro delle armi. Il loro comportamento è stato però segnalato al comparto di caccia di appartenenza affinché, come previsto dai regolamenti interni, nei prossimi anni sia loro ritirata l’autorizzazione alla caccia di selezione agli ungulati.
In ogni caso, la giustificazione addotta è la classica toppa peggiore del buco. Leggerezza aggravata dall’uso della carabina che, al contrario della doppietta normalmente utilizzata nella caccia al cinghiale, ha un tiro utile di circa 300 metri ma una gittata due volte superiore. La legge, saggiamente, vieta di sparare in direzione di strade, case, sentieri o luoghi dove potrebbero trovarsi persone ignare, per almeno 150 metri o “una volta e mezzo la gittata di tiro dell’arma adoperata”. Nella stagione 2018/19 (tipicamente, dalla terza domenica di settembre al 31 gennaio) in Italia sono state colpite in incidenti di caccia 80 persone, di cui 21 decedute. Una strage dimenticata o, peggio, tollerata.
Le fotografie sulla scena del crimine dal Servizio Vigilanza delle APAC, mostrano i fori di entrata e uscita, caratteristici dei proiettili da carabina: piccoli in ingresso (foto ) e larghi dopo aver attraversato il corpo degli animali colpiti (foto ).
La caccia di frodo nel Duemila
Se nei secoli scorsi la caccia di frodo poteva avere un’attenuante perché permetteva di integrare ogni tanto un’alimentazione altrimenti molto povera, oggi non ha più alcun alibi. Se letteratura, cinema e una certa tradizione popolare hanno ammantato il bracconiere di una qualche aurea romantica, oggi tale connotazione si è completamente trasformata in un farabutto che non solo infrange la legge ma, senza neppure affrontare la fatica della montagna o di una tecnologia venatoria primitiva, si appropria fraudolentemente di un bene che appartiene all’intera collettività (la fauna selvatica è definita “patrimonio indisponibile dello Stato” dalla Legge 157/92). Tanto più che spesso gli illeciti vengono compiuti direttamente dalle strade o addirittura appoggiati sui cofani delle auto. E allora oggi, anziché una malintesa complicità o tolleranza omertosa, i bracconieri dovrebbero essere attorniati dal disprezzo delle comunità locali: solo così le pene previste dalla Legge acquisirebbero una deterrenza più efficace.
Il bracconaggio in Piemonte
Il bracconaggio, almeno in Piemonte, è certamente un fenomeno minoritario. L’anzianità dei potenziali criminali e una maggiore sensibilità ambientale relegano gli ultimi bracconieri ai margini della società e limitano i loro delitti a pochi episodi ogni anno. Ciononostante, questi reati restano gravi per gli animali, in primis, e per una loro corretta gestione: i capi uccisi illegalmente sfuggono a ogni conteggio o controllo sanitario. E poi, per i cacciatori che rispettano le regole che vengono equiparati a quelli sleali e per l’incolumità di turisti, cercatori di funghi, fondisti e amanti della montagna vera e pulita.
C’è però un altro tipo di bracconaggio che ha negli ultimi anni un disgraziato revival. Esche avvelenate sparse su prati, colline e montagne sono tornate di moda, soprattutto per uccidere i lupi. È un’azione ancora più vigliacca e odiosa, perché non è selettiva e avvelena tanti animali, dalle volpi ai tassi, dalle cornacchie agli avvoltoi, fino ai cani di ignari escursionisti e pastori. Talvolta è un metodo adoperato deliberatamente contro i cani: nei giardini pubblici, dove qualcuno li considera fastidiosi, o nelle province dove si raccolgono i tartufi, per eliminare i migliori segugi altrui. Inoltre, presuppone un commercio illegale di sostanze farmaceutiche proibite in Italia da decenni.
Il progetto europeo Life Wolf Alps, da poco concluso e già riapprovato dalla Unione Europea fino al 2024, ha dedicato finanziamenti e personale al contrasto di questi subdoli crimini, attivando numerosi interventi risolutivi le cui indagini, alcune ancora in corso, hanno svelato retroscene e interessi prima ignoti.